martedì 11 febbraio 2014

Tu e Dio

Mi è capitato ieri di leggere alcuni capitoli di questo saggio ("Io e Dio") scritto da Vito Mancuso, teologo "riformista" piuttosto famoso per le sue posizioni non dottrinali.
La questione "Dio" mi è sempre stata cara, essendo io parte di quella minoranza (pare intorno al 10% della popolazione mondiale) che si professa "atea o agnostica".
E' una questione ovviamente super complicata, e non sarà possibile certo sviscerarla in un post di un piccolo blog di periferia. Ma mi sono venute in mente alcune riflessioni penso interessanti, pertanto le condivido.

Quando si parla di credere o meno in Dio, in realtà, si fa riferimento a 4 livelli differenti.
Il primo comprende, per sintetizzare, il concetto di "Creatore\creazione\creatura". Afferisce proprio a Dio, in una forma di senziente volontà che ha plasmato l'Universo e che, in qualche modo, inferisce con noi.
Il secondo livello è quello della "Religione". Ovvero la struttura organizzata del culto, basata su propri codici etici e morali, su proprie visioni peculiari, e con rituali ritenuti unici.
Il terzo: la "Religiosità". Con questo intendo il rapporto con il divino, che può anche espletarsi socialmente.
L'ultimo: la "Spiritualità". Anche se spesso è sinonimo del livello precedente, io mi riferisco a qualcosa di più sfumato del "divino": ovvero il rapporto con il mistero e le incognite dell'esistenza, e che non necessariamente deve collegarsi al di fuori di noi con un'entità definita.

Sono quattro piani non così facilmente separabili, ma bisognerebbe sforzarsi di farlo. Anche per evitare alcune gravi incomprensioni che intercorrono tra credenti e non credenti. Credo che tutte le ricostruzioni e le analisi lette nel corso degli anni mi risultino sempre un po' stonate proprio perché tendevano un po' ad appiattire il tutto.

Quando Einstein, che era credente, afferma: "La scienza senza religione è zoppa" si riferiva davvero al livello "religione"? O forse intendeva religiosità, o ancora spiritualità?

Io, nonostante tutto il mio agnosticismo, ho ampio rispetto per il discorso teologico. Se ci pensiamo è una delle grandi peculiarità dell'animale uomo. Come il linguaggio complesso e la sepoltura dei morti. E a dirla onestamente, credo sia stata una tappa incredibile ed appassionante della nostra storia.
Ma altrettanto onestamente, sento sia una tappa da superare, o meglio da perfezionare.

Gli animali non hanno una consapevolezza di sé tale da permettere l'insorgere di pensieri e concetti paragonabili ai nostri. E come le pecore niciane credo si godano una sorta di felicità da totale tabula rasa.
Quando, pare tramite il nostro pollice opponibile, la nostra corteccia cerebrale ha compiuto il salto di qualità, davanti ai nostri occhi si è spalancato il tutto. Siamo stati inondati dalla multiforme vastità della natura e dai sentimenti più forti mai apparsi prima sulla Terra.
Io penso che di fronte a questo, essendo senza alcune armi razionali, non abbiamo potuto che rimanerne terrorizzati. Ed è a questo punto, per come la vedo io, che si è affacciato il bisogno assoluto di un Dio. Un Dio, come affermano gli antropologi, dall'aspetto particolarmente "eziologico".
Il primo livello di cui parlavo.

Scrive Mancuso che ancora è ben lungi dall'essere stata risolta la questione di come dal "nulla" si sia creato l'Universo e come dalle molecole inorganiche siano spuntate quelle a base proteica, origine prima della "vita".
Questo è vero. Ma rispondere con "è stato Dio", secondo me: primo non risponde al problema; secondo è davvero la via più semplice e primitiva; terzo con quali prove?

E' davvero importante ritenere che questo tutto sia stato originato da una volontà superiore e senziente? Cosa cambia effettivamente nelle nostre vite questa teoria?
E, sempre dal mio punto di vista, la "fede" in un creatore ha la stessa valenza ontologica della favola di Babbo Natale, o del mito di Prometeo. Sono senza dubbio belle storie, ma perché bisogna mascherarle con qualcos'altro?

Tutti i tentativi religiosi di strutturare il reale finiscono per semplificarlo talvolta a livelli imbarazzanti. Lo stesso Mancuso, citando Primo Levi, dice più o meno così: ma davvero possiamo credere in una Provvidenza Storica dopo Auschwitz?
E allo stesso modo: possiamo pensare ad una giustizia provvidenziale? Ad un piano divino imperscrutabile per i nostri destini?
Realmente avere fede in questo ci aiuta a vivere meglio?

Ogni volta che si propone quest'argomento l'interlocutore porta come "testimoni" affermazioni di Tizio e di Caio. Ma a me invece interesserebbe capire nella sostanza quali aspetti positivi arreca nelle nostre esistenze un Dio che ci solleva nel momento del bisogno.
Perché credere che quel conforto non derivi da un'entità sovranaturale (bensì da noi stessi o dagli amici) dovrebbe sminuire la forza e la concretezza di quell'aiuto?

Sui mali della religione non mi soffermerò in questa circostanza.
Invece concludo riferendomi agli ultimi due "livelli".
Nessun ateo può essere aspirituale. Come nessun credente. I confini stessi della scienza ci lasciano aperte voragini di senso e di drammaticità tali che è impossibile non restarne atterriti o addirittura pensare che non esistano.
Ed è su questo che io trovo oggi la maggiore colpa della religione. Essere completamente assente (o in alternativa ipocritcamente presente) sulle domande fondamentali della nostra tragedia dell'essere al mondo.
Esiste un Universo davanti a noi, parte insignificante di dimensioni siderali aldilà della nostra portata, in cui noi pulsiamo come la più fioca delle candele in estrema lontananza. 
Eppure non ne parliamo mai, o quasi, e lasciamo che invece le nostre miserie ci sommergano completamente. Allora, forse, si parla di Dio e di religione, ma atrofizziamo la spiritualità.
E, ancora forse, non dovremmo concentrarci su questo livello, piuttosto che sugli altri? Almeno una volta ogni tanto?

Potremmo anche scoprire, come ha fatto il buon Sagan, che dalla scienza più razionale e raziocinante giungono a noi delle domande di una tragicità senza confini, in grado di gettarci nella più totale disperazione come nella più esplosiva esaltazione.

Nella mia assoluta parzialità e meschinità, ritengo che la fede non possa più essere la guida della civiltà. Né Dio una risposta, una soluzione, un fine, un mezzo, o un grande imbonitore. Questo per me appartiene ad un tempo e ad uno spazio "primitivi". Oggi, nel terzo millennio, questa fede mi pare sempre di più simile non ad un oppiaceo, bensì ad un peso, ad un distrattore.
Il che non significa, per dirla con Faber, doverci trasformare in "cinghiali laureati in matematica". Tutt'altro. Né che si debba diventare superuomini.

Fermo restando che continuiamo e continueremo a vedere per specula (e quindi anche per speculazione), vorrei rivolgessimo i nostri occhi più su, molto più in alto di Dio.